Quando per i bambini studiare non è un gioco

 I tempi del corpo per rispondere alle cure che gli stiamo dando sono lenti, ma altrettanto la mente ha bisogno di lunghi tempi per elaborare concetti complessi.
In alcuni soggetti quindi questa caratteristica si manifesta con piccoli costanti miglioramenti, in altri invece con una certa ostinazione a mantenere fissi determinati schemi, salvo poi lasciarli andare velocemente. Ognuno ha il suo modo per crescere.

Ecco allora il caso di un simpatico bambino, che in questa sede chiameremo B.B.. 
Ero stata contattata dalla mamma per aiutarlo nei compiti di scuola. Era stato segnalato l’anno precedente da una maestra forse troppo scrupolosa, che voleva venisse affiancato in classe da un’insegnante di sostegno.
Niente di più spaventoso! Fin dai primi momenti il bimbo non è apparso in nessun modo degno di un’attenzione di quel tipo, però certamente c’era un certo distacco nei confronti della scuola, ma soprattutto una profonda avversione per tutte quelle attività che richiedevano un confronti diretto tra ciò che si è appreso negli esercizi e l’applicazione nella realtà. Da qui le difficoltà di apprendimento e di studio.
Quindi, tra tutte le materia, matematica era la peggiore e, in questa, i "problemi" erano dei mostri tremendi, di quelli da tener svegli la notte.
Così ci siamo rimboccati le maniche, ognuno a suo modo.

Durante i primi tre mesi, il lavoro più grande e faticoso per entrambi, me e B.B., è stato proprio quello di trovare una strada davanti alla difficoltà, quando tutto diventa nero (o come invece è per lui, tutto diventa bianco) e le soluzioni paiono inafferrabili.
Come sempre in quei momenti tendiamo a vedere quello che non siamo in grado di fare e questo diventa uno scoglio sempre più insormontabile a mano a mano che il tempo passa. Per un bambino è la stessa cosa, con l’unica differenza che alle volte l’avvilimento si misura in minuti, su argomenti che per noi adulti sono invece banalità, come ad esempio l’operazione matematica da applicare in un problema a quesito semplice.
Dunque dopo aver giocato a rimpiattino e aver misurato il mio valore sulla base dell’attendibilità delle mie affermazioni, siamo riusciti ad aprire un varco in una trincea di silenzio, fatto di paura e di vergogna (cosa succederà se sbaglio; se sbaglio sono stupido).
I tre mesi successivi hanno visto una crescita di successi nel campo scolastico, ma anche una maggior sicurezza nelle relazioni con i pari. Durante questo periodo, l’attenzione era nel cercare e trovare una strategia adeguata per affrontare l’ignoto (l’attimo prima di individuare una soluzione, siamo sempre di fronte all’ignoto). E il premio alla fine è arrivato.
L’ultimo problema dell’ultima settimana dell’anno, B.B. l’ha affrontato completamente da solo!
Senza sentire paura nel non avere supporto e suggerimenti, senza cercare una scusa per avere una scorciatoia, ma con impegno, una lieve (e sana) ansia e lucidità.

Ora che un nuovo anno comincia, abbiamo già fatto una prova del nove: fin dal primo giorno ho ritrovato un bambino serio e sollevato nello svolgere i compiti. Certo, abbiamo riso, detto stupidaggini, fatto errori, trovato soluzioni, e ancora riso, ma questo non ci ha impedito di essere seri..
Proprio perché i compiti non devono essere (soltanto) un dovere, ma un serissimo gioco in cui il bambino si cimenta in una delle attività della vita.